Smart working: l’Italia “costretta” ad accelerare il cambio di approccio

Il lavoro “smart” è oramai una realtà che si sta facendo strada fra le aziende, specialmente le multinazionali, anche se la sua diffusione è lenta e spesso frenata da una cultura del lavoro vetusta. Gli eventi accaduti nelle ultime due settimane che riguardano il Corona-virus hanno costretto moltissime organizzazioni, situate per la maggior parte nel Nord Italia, all’adozione immediata dello smart working, anche se è chiaro che si tratta soltanto di un provvedimento temporaneo. È vero che la decisione di far svolgere il lavoro e tutte le attività sociali in modalità remota non è stata presa a seguito di valutazioni e ragionamenti, tuttavia in questa situazione di emergenza si possono già trarre le prime sommarie considerazioni. Come accennato, oltre alle aziende, abbiamo potuto riscontrare come numerosi eventi, come anche convegni, hanno potuto ugualmente avere luogo in modalità streaming, così come alcune scuole hanno sfruttato l’e-learning (anche se non è propriamente lavoro). Il contesto di emergenza Corona-virus è arrivato all’improvviso ma ci sentiamo in dovere di far notare, come in questo caso, che l’evento negativo è stato comunque una grande occasione per testare velocemente e utilizzare (non senza fatica) lo smart working. Allora si può fare! Augurandoci comunque tempi ristretti per la normalizzazione della situazione Corona-virus, ci piacerebbe poter parlare prossimamente di quanto questo episodio avrà cambiato di molto l’approccio delle aziende e delle strutture verso lo sfruttamento di questa opportunità. Facciamo allora un passo indietro e andiamo a dare uno sguardo alla situazione smart working nei periodo 2018-19. 

Lo smart-working permette al lavoratore di conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorisce la crescita della sua produttività. Questa modalità di lavoro in Italia è stata formalmente riconosciuta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali fin dal 2017.  

Cosa ne pensano gli imprenditori? 

I datori di lavoro si chiedono spesso se, lavorando da casa, il lavoratore percepisca il proprio impiego come se fosse in ufficio, oppure se l’essere “fuori controllo” lo renda meno produttivo. Nelle varie realtà coesistono persone differenti e politiche manageriali diverse. Dobbiamo considerare che nel nostro Paese moltissime aziende hanno ancora una concezione gestionale che è rimasta incentrata al controllo della persona, o alla presenza correlata al tempo impiegato per svolgere un determinato compito; in sostanza si è ancora fermi al concetto “più ci si ferma in ufficio, più si è bravi”. Questa è una filosofia di gran lunga superata per non dire antiquata anche se rimane ancora ben radicata nel nostro Paese. 

Restare legati alle tradizioni non sempre paga 

Tuttavia, il rendimento non sempre è proporzionale alle ore lavorate: lo dimostrano le cifre del rapporto OCSE 2018 in cui l’Italia è risultata tra le prime posizioni per numero di ore lavorate alla settimana, ma agli ultimi posti per livelli di produttività del lavoro. Sempre OCSE ha registrato che nel nostro Paese tra il 2010 e il 2016 la produttività (PIL per ora lavorata) è aumentata solo dello 0,14% medio annuo, un dato secondo solo alla Grecia. Se quindi i dati dimostrano che ore lavorate non significano necessariamente maggiore produttività, i benefici che lo smart working produce sono ormai tangibili a diversi livelli. Per l’azienda rappresenta infatti un abbattimento dei costi di gestione degli spazi fisici, mentre i lavoratori ottengono un notevole risparmio in termini di tempo e denaro, legati ad esempio agli spostamenti.  

Le cifre indicano il cambiamento ma… 

Stando ad uno studio effettuato dal Politecnico di Milano (Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano) nel 2019 il numero di smart worker nel nostro paese era di 570.000 unità. Il numero di aziende che lo sta sperimentando è cresciuto di non molto: solamente due punti rispetto al 56% del 2018. Il dato interessante emerso dallo studio è la soddisfazione derivante dal lavoro flessibile che sorpassa abbondantemente il 70% delle risorse coinvolte. Il 40% degli intervistati riferisce di riuscire ad organizzare meglio il proprio lavoro e che i rapporti con i colleghi, anche se a distanza, sono migliorati. Meno del 4% del totale dei lavoratori può invece sfruttare lo smart-working, percentuale che indica come l’Italia sia ancora reticente al cambiamento, aggrappandosi ancora alla filosofia presenzialista. 

Quali risultati può portare? 

Grazie a una maggiore flessibilità di orario e di autogestione, si riesce a incrementare la soddisfazione del lavoratore e ad ottenere un aumento del 15% in termini di produttività e una riduzione del tasso di assenza del 20%. Le aziende inoltre registrano un 30% di riduzione dei costi per la gestione delle strutture. Un altro beneficio misurabile dello smart-working, meno evidente forse, è l’impatto in termini di riduzione delle emissioni di CO2, dovute a una diminuzione del traffico e al migliore utilizzo dei trasporti pubblici. Questo aspetto lo possiamo rilevare proprio in questi ultimi giorni nelle grandi città come Milano, molto meno congestionate dal traffico. In media le persone percorrono circa 40 chilometri al giorno per recarsi al lavoro, e ammettiamolo: il traffico e le ore perse per raggiungere l’ufficio sono una vera tortura! Ipotizzando che i lavoratori effettuino un giorno a settimana di lavoro da remoto, si potrebbe ottenere una riduzione in termini di emissioni per persona pari a 135 kg CO2 all’anno per non contare anche il risparmio da parte del lavoratore sulle spese sostenute per lo spostamento. 

Attenzione a valutare bene i pro e i contro 

Insieme ai benefici dello smart working bisogna prendere in considerazione anche i rischi derivati: chi lavora da remoto potrebbe sentirsi isolato, avere difficoltà nell’organizzarsi con i tool di comunicazione utilizzati, non essendo in ufficio. Le problematiche che possono derivare da una non corretta comunicazione possono ritorcersi contro il raggiungimento degli obiettivi e falsare la percezione che l’azienda può avere verso lo smart working e la sua utilità. Altro rischio dovuto principalmente all’errato concetto dell’essere fuori ufficio che spesso equivale a non avere orari è appunto la modalità “always on”, ossia sempre connesso. L’errata convinzione che se una persona gestisce il proprio lavoro da casa possa disporre di maggior tempo durante l’arco della giornata è da cambiare: si può terminare la propria giornata lavorativa alle 18 sia uscendo dall’ufficio, sia “staccando” da casa. 

Tutte queste problematiche vanno valutate e regolamentate ben prima di avviare esperimenti, lo smart working male organizzato può infatti produrre effetti negativi rispetto al sistema tradizionale e probabilmente la diffidenza di molte realtà verso il nuovo sistema risiede proprio in questi motivi. 

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